Quando si sono conosciuti avevano solo sette anni. Lui arrivava da un orfanatrofio e i suoi occhi azzurro cielo spiccavano sul suo viso magro e la testa rasata. Indossava un maglione di taglia più piccola, tanto che le maniche non coprivano che tre quarti delle braccia, e ai piedi portava un paio di scarpe più grande di due numeri. La mamma l’aveva persa quando aveva solo due anni. Gli raccontarono che era morta di un male incurabile, a soli 21 anni. Che doveva fare suo padre? Trovò nell’orfanatrofio la soluzione più sicura e così il bimbo visse là per cinque lunghi anni. Patì la fame e il freddo. Patì l’assenza di una madre e di una famiglia. E in questo luogo così povero di spirito, forgiò il suo carattere silenzioso e schivo.
Imparò così a sue spese che le parole hanno un peso. Che non puoi dire “ti amo” ad una persona, senza pensarlo. Imparò che le promesse vanno mantenute e che a parlar male di qualcuno, si impoverisce la nostra immagine.
Lui, che aveva avuto un’infanzia infelice, provata dal mondo e dagli eventi, imparò tutto questo nel giro di pochi anni. Gli era stata tolta la madre, ma in dono aveva ricevuto una gran virtù: la capacità della rielaborazione. Quella che ti permette di vedere il bicchiere mezzo pieno, quella che quando tutto va storto ti permette di intravvedere un perchè, quella che ti insegna a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, quella che ti insegna a perdonare, nonostante tutto. Ecco. Quest’uomo è stato un maestro della rielaborazione e del perdono.
Quando entra in classe, nella classe della seconda elementare, trova un maestro severo e bambini vestiti con severi grembiulini neri. Tra di loro c’è una bimba ribelle. “Vai a sederti là, giù in fondo alla classe!” gli dice il maestro “E se farai confusione, assaggerai questa!” conclude con voce prepotente, mostrando la bacchetta.
La bimba lo guarda. Osserva quel bimbo con occhi celesti sedersi in un banco e nel suo cuore nasce un pensiero: “Io ti farò felice!”
Durante l’intervallo si sono presi per mano, e da allora non si sono più lasciati dando vita ad uno dei matrimoni più belli e intensi del paese.Tante volte osservando quest’uomo ho pensato che avrei dovuto imparare molte cose da lui. Mentre il telegiornale gridava le storie di un mondo che muore, io avevo vicino una persona capace di non rendere il male subito, di pensare che la vita merita di essere vissuta, di amare la moglie con un’intensità sconosciuta alla maggior parte delle coppie. Che forza di volontà ci vuole per accettare un’infanzia del genere? Quanta capacità d’amare devi possedere per crescere i figli dando loro ciò che è mancato in te? Non un ritorcere contro, ma uno spezzare la catena, fermare il delirio, rielaborare il dolore perchè ne nasca solo gioia.
Guardate, il mondo è pieno di sofferenza e di violenza. Non c’è giorno che non sia intriso di sangue e prepotenza. Eppure possiamo cambiare.
Io che non so perdonare, io che conosco bene il sapore amaro del rancore, davanti a quest’uomo non ho potuto che tacere.
“Che te ne fai del rancore e della rabbia?” mi sono così chiesta un giorno, davanti alla sua bara. “Che te ne fai della sete di vendetta?”
Poi guardavo quel corpo spento, i tratti distesi in un malinconico addio.
Ho sbuffato, più e più volte, pensando alla fatica del perdono, all’abbandono del rancore. E poi il mio viso tornava su di lui.
Lui avrebbe perdonato, senza alcun dubbio.
Per questo ha condotto una vita felice.
Per questo ha saputo farsi amare.
Per questo è stato un uomo di grande equilibrio.
Ecco il suo insegnamento per me: il perdono è una grande fatica, che costa rielaborazione e dedizione. È la carta che ha nel mazzo chi sa affidarsi, chi crede che ci sia un disegno più grande, chi non ha la presunzione di essere migliore di altri. È quel dono che più ci avvicina ad una dimensione ultraterrena, lontana dalle logiche umane. Il perdono è comprensione, un abbraccio che arriva quando non te lo meritavi. È la capacità di sapere che sei in credito, ma spenderti per gli altri come se fossi in debito. E in questo mondo fatto di carne e sangue, rabbia e dolore, spesso è l’unica vera strada per la felicità.
Imparò così a sue spese che le parole hanno un peso. Che non puoi dire “ti amo” ad una persona, senza pensarlo. Imparò che le promesse vanno mantenute e che a parlar male di qualcuno, si impoverisce la nostra immagine.
Lui, che aveva avuto un’infanzia infelice, provata dal mondo e dagli eventi, imparò tutto questo nel giro di pochi anni. Gli era stata tolta la madre, ma in dono aveva ricevuto una gran virtù: la capacità della rielaborazione. Quella che ti permette di vedere il bicchiere mezzo pieno, quella che quando tutto va storto ti permette di intravvedere un perchè, quella che ti insegna a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, quella che ti insegna a perdonare, nonostante tutto. Ecco. Quest’uomo è stato un maestro della rielaborazione e del perdono.
Quando entra in classe, nella classe della seconda elementare, trova un maestro severo e bambini vestiti con severi grembiulini neri. Tra di loro c’è una bimba ribelle. “Vai a sederti là, giù in fondo alla classe!” gli dice il maestro “E se farai confusione, assaggerai questa!” conclude con voce prepotente, mostrando la bacchetta.
La bimba lo guarda. Osserva quel bimbo con occhi celesti sedersi in un banco e nel suo cuore nasce un pensiero: “Io ti farò felice!”
Durante l’intervallo si sono presi per mano, e da allora non si sono più lasciati dando vita ad uno dei matrimoni più belli e intensi del paese.Tante volte osservando quest’uomo ho pensato che avrei dovuto imparare molte cose da lui. Mentre il telegiornale gridava le storie di un mondo che muore, io avevo vicino una persona capace di non rendere il male subito, di pensare che la vita merita di essere vissuta, di amare la moglie con un’intensità sconosciuta alla maggior parte delle coppie. Che forza di volontà ci vuole per accettare un’infanzia del genere? Quanta capacità d’amare devi possedere per crescere i figli dando loro ciò che è mancato in te? Non un ritorcere contro, ma uno spezzare la catena, fermare il delirio, rielaborare il dolore perchè ne nasca solo gioia.
Guardate, il mondo è pieno di sofferenza e di violenza. Non c’è giorno che non sia intriso di sangue e prepotenza. Eppure possiamo cambiare.
Io che non so perdonare, io che conosco bene il sapore amaro del rancore, davanti a quest’uomo non ho potuto che tacere.
“Che te ne fai del rancore e della rabbia?” mi sono così chiesta un giorno, davanti alla sua bara. “Che te ne fai della sete di vendetta?”
Poi guardavo quel corpo spento, i tratti distesi in un malinconico addio.
Ho sbuffato, più e più volte, pensando alla fatica del perdono, all’abbandono del rancore. E poi il mio viso tornava su di lui.
Lui avrebbe perdonato, senza alcun dubbio.
Per questo ha condotto una vita felice.
Per questo ha saputo farsi amare.
Per questo è stato un uomo di grande equilibrio.
Ecco il suo insegnamento per me: il perdono è una grande fatica, che costa rielaborazione e dedizione. È la carta che ha nel mazzo chi sa affidarsi, chi crede che ci sia un disegno più grande, chi non ha la presunzione di essere migliore di altri. È quel dono che più ci avvicina ad una dimensione ultraterrena, lontana dalle logiche umane. Il perdono è comprensione, un abbraccio che arriva quando non te lo meritavi. È la capacità di sapere che sei in credito, ma spenderti per gli altri come se fossi in debito. E in questo mondo fatto di carne e sangue, rabbia e dolore, spesso è l’unica vera strada per la felicità.