PERCHe’ HEIDI
Una sola domanda mi è stata rivolta più volte nella vita, è cioè: “Perchè ti chiami Heidi?”
Eh, perchè?
C’è una piccola storia dietro questo nome: la storia di un parto difficile e di una donna determinata.
Diciamocelo. Chiamarsi Heidi significa portare il peso di una bambinetta svizzera di cinque anni tutti i santi giorni sulla groppa. Da quando sono nata lei è lì, nel mio zainetto virtuale, quello da cui non mi separo mai, con le caprette che mi fanno ciao, il nonno delle Alpi e il tenero Peter che, secondo me, alla fine si è divertito con Clara.
Lo so, rispetto alle vere fatiche della vita questa è un’inezia. Ma se pensate a quante volte mi sono trovata nella parte del capro espiatorio tra i compagni di giochi e quelli di scuola, beh, diventa anche facile intuire molti aspetti di questo mio carattere così determinato.
Questo zainetto, dicevo, è con me da sempre. Avrei potuto abbandonarlo da qualche parte, cambiando nome. Avrei potuto nasconderlo, con un diminutivo oppure un soprannome. Ma a lui vi è legata una storia di una bellezza intensa a cui non rinuncerei per nulla al mondo, e che rende questo zainetto una delle cose più care che ho.
Settembre. Anno 1975. Ospedale di Bergamo.
Una giovane donna di 23 anni, capelli scuri e naso all’insù, arriva in ospedale accompagnata dal suo pancione di nove mesi, il marito e una madre vigorosa.
Deve dare alla luce un bambino e questa è l’unica certezza che ha.
Del resto, di tutto ciò che dovrà attraversare in quel lungo viaggio, non sa nulla. Nessuno le ha parlato di travaglio. Nessuno le ha detto dei dolori lancinanti che permettono alla vita di risorgere ogni volta, né del coraggio di cui dovrà armarsi per non lasciarsi sopraffare dal dolore.
È naturale. Trentasei anni fa le donne non conoscevano le dinamiche del parto come oggi e l’unica frase che mia madre aveva tra le mani come lasciapassare per l’avventura era la seguente: “partorire è poco più che avere le mestruazioni”.
La giovane donna non conosce neppure il sesso del suo primo figlio. Sa solo che se sarà un maschietto si chiamerà Roberto, se una femminuccia, avrà invece il nome di Daniela.
Andiamo avanti. Quando partono le contrazioni, è quasi mezzanotte. La giovane donna inizia a cambiare notevolmente il ritmo del respiro e il suo volto inizia ad assumere, lentamente, la fisionomia del dolore.
È in questo istante che arrivano i personaggi chiave della vicenda: due cugine, infermiere, che prendono in carico la situazione. Da sempre si contraddistinguono per la sicurezza nei modi e la perentorietà dell’atteggiamento, perciò nessuno si stupisce quando, con fare deciso, rassicurano mio padre e mia nonna accompagnandoli alla porta. Saranno loro, dicono, a seguire il parto, come avevano promesso qualche mese prima. Va sottolineato che il gesto era valso loro la scelta del mio nome da bambina. E la scelta era caduta su Daniela, per l’appunto.
In una sala che profuma di alcool puro e scatole di medicinali scomposte, restano dunque un’ostetrica e due donne sui trent’anni, infermiere a quanto si dice. In realtà anche questa è una situazione momentanea, perché, in breve, le due cugine liquidano pure l’ostetrica, che serenamente chiude la porta dietro di sé e con passi brevi se ne va.
La sensazione è quella di una partita a nascondino tra bambini dispettosi. Spariti mio padre e mia nonna, congedata l’ostetrica, se ne vanno pure le cugine che lasciano la piccola donna sola in una camera bianca d’ospedale.
Sola. Completamente.
E non per qualche ora. Resterà sola per tutto il viaggio che solo io e lei abbiamo affrontato insieme.
Quando trent’anni dopo mi sono ritrovata in sala parto, con la mano di Devid che stringeva la mia e Flavio, un ostetrico con i controcazzi (passatemi il termine), ho pensato innumerevoli volte a questa scena. Ogni volta che una contrazione mi tagliava il respiro, io pensavo a quella piccola donna che si era trovata lì sola, senza nessuno che le porgesse una mano da stringere. Senza qualcuno che le dicesse: “Forza, non temere. È tutto normale. Ce la farai”.
Come fa, una donna, a sapere che non sta accadendo nulla di fuori percorso, se nessuno le ha dato gli strumenti per capire?
Io sono nata in un cerchio di speranza.
Tra una contrazione e l’altra il mio corpicino avanzava lentamente per uscire dal tepore materno, in quella piccola stanza dove c’erano due battiti e un solo respiro.
Sapete cosa significa sentire una contrazione? Significa essere abbracciati dal gelo. La sensazione è quella di due manine che partendo dalla spina dorsale, percorrono la pelle centimetro dopo centimetro per incontrarsi sotto l’ombelico e stringere fino a spezzarti il fiato.
È un gioco di resistenza fisica e mentale di ineguagliabile potenza. Un percorso che a te, donna, lascia una ricchezza smisurata: la consapevolezza di una forza antica, che ti è stata donata.
Di questo mi racconta spesso mia madre. Della forza che ha trovato dentro di sé per affrontare il parto. Una forza misteriosa, che non sapeva d’avere ma che ora era sua. Per sempre.
Sono nata alle sei di mattina, quando fuori l’orizzonte sapeva di luce. Sono nata dopo sei ore di travaglio, nell’istante in cui l’ostetrica ha varcato quella porta che teneva mia madre in un angolo di solitudine. Sono nata in mezzo alle imprecazioni, perché qualche minuto dopo è rientrata anche una delle cugine. E come inizio direi che non è il massimo per una piccola vita…
Però sono nata. Sana, dicono.
Ero una femminuccia, la prima dopo ventitre anni di piselli. Dopo mia madre infatti erano nati solo maschietti, undici per la precisione.
E quando l’ostetrica ha preso tra le mani la mia piccola vita, è arrivata la fatidica domanda:
“Come chiamiamo la bambina?”
Allora è avvenuto ciò che mia madre ha definito il suo primo vero gesto di ribellione:
“L’ho fatta io e lo decido io! Si chiamerà Heidi!”
E dunque eccomi qua. Con questo nome, Heidi appunto, preso da un romanzo ottocentesco letto da mia madre qualche mese prima.
Certo, con queste premesse l’unica cosa che avrei potuto avere di Heidi erano i capelli biondi. Ma tenera e piccola, dopo un’avventura del genere, proprio no!
Se poi si pensa che ho sposato uno che si chiama Devid come lo gnomo, direi che abbiamo tutte le carte in regola per vivere una vita quantomeno sigolare! Aneddoti (#cosedaheidi), avventure in giro per il mondo, desiderio di stravolgere i luoghi comuni… questa sono io.
Ecco perché oggi credo fortemente che valga la pena di vivere e di lottare. Ecco perché credo che ognuno di noi abbia le carte in regola per realizzare sogni ed aspirazioni. Perché quando dico a mia madre che ho un ostacolo dinnanzi al mio cammino ed un sogno oltre, lei mi risponde con un sorriso: “Ricordati che io e te ce l’abbiamo fatta insieme, da sole. Se abbiamo saputo affrontare quella situazione, abbiamo le capacità per andare lontano”.