Ogni anno torno lì con la mente per un lungo istante. Ogni anno, a Natale.
Perché è una delle mie amicizie più lontane, nel tempo e nel mondo.
Estate 1990. Quello che mi ricordo è un rumoroso viaggio in treno per Genova.
Forse, l’unico viaggio in treno che io abbia mai fatto accompagnata da mio padre.
Era luglio, forse agosto, ed io avevo il viso fresco e disteso di una ragazza di quindici anni, vestita con una di quelle tute blu segnata da tre immancabili righe verticali bianche. Nessun precedente affettivo se non qualche calciatore in sogno, nessuna idea del proprio futuro sentimentale.
Insomma, un foglio bianco in amore. Ricordo il mio entusiasmo traboccante lungo quel viaggio disegnato dai binari di ferro vecchio, che mi portavano al mare, destinazione Sestri Levante.
Seduta in un vagone rigorosamente di seconda classe, guardavo sfilare le casette della Liguria dal mio grande finestrino sporcato dal tempo, trovandole affascinanti semplicemente perché non appartenevano alla mia consuetudine.
Nel vetro, mi divertivo anche ad osservare il gioco dei riflessi tra il mio giovane volto e quello degli altri viaggiatori, un po’ meno giovani di me. Tra di loro, anche quello di un giovane ragazzo dai tratti tipicamente nordici, disegnato da capelli chiari e una carnagione di porcellana.
Iniziammo a parlare. Una frase, due, tre… in breve ci trovammo a dialogare mischiando le lingue, giocando con la grammatica, arrampicandoci sui vetri per spiegare chi eravamo uno all’altra. Patrick, questo il nome del ragazzo, era di Goteborg e si trovava in viaggio per visitare l’Italia con il suo zaino color blu, carico di vita. All’epoca aveva ventotto anni, tredici più di me, d io lo elessi nel giro di due biscotti sgranocchiati un esempio di vita: perché il viaggio apparteneva alle sue corde in modo inequivocabile, come fosse la linfa del suo essere. La sua esistenza non poteva prescindere dal vedere e conoscere il mondo.
Mentre percepivo che non c’era esperienza più bella di un buon incontro, pensai anche che quella sarebbe stata la mia vita. Con lo zaino in spalla, per le strade del mondo.
Patrick non arrivò a Genova. Scese qualche fermata prima, ma dal finestrino mi lasciò il suo indirizzo. Ricordo lo sguardo di mio padre, che già temeva la mia natura poco incline alle regole e la sua affermazione: “Comunque lui per te è troppo grande!”
Ricordo la mia risata piena di vita, di quelle che si addicono a chi sta bene con il proprio presente, accompagnata dal fischietto del capotreno che due secondi dopo allontanò la mia storia da quella di Patrick. E ricordo di aver custodito con grande gelosia quell’indirizzo, perché era il primo che tracciava la mia storia fuori dai confini italiani. Ora qualcuno in Svezia mi conosceva. Qualcuno, a Goteborg sapeva della mia minuta esistenza… e per me che vivevo, e ancora vivo, per varcare i confini del mondo, era una sensazione di bellezza impagabile.
La notizia è che ancora oggi, dopo ventun anni e molti treni, sento ancora Patrick. La nostra è una corrispondenza che rinasce puntualmente ogni anno, quando qualche giorno prima di Natale, un biglietto inchiostrato con un timbro estero varca la mia porta, per aprire il mio sorriso.
Ogni anno, a Natale, da una vita.
Prima i biglietti raffiguravano paesaggi svedesi di una suggestione coperta di neve. Poi, ai paesaggi si sono sostituite le fotografie dei suoi due bambini, che oggi sono dei piccoli uomini.
Naturalmente, anche quest’anno Patrick non ha fatto eccezione e mi ha inviato un biglietto carico d’affetto. Io per una volta ho deciso di trasgredire, e i miei auguri non li invio per posta, ma proprio da qui.
Perché a Patrick e a tutti quelli come lui che non hanno confini nel proprio Dna ma solo sete d’avventura e di conoscenza, auguro davvero un anno degno di nota. Un anno capace di seguire queste persone che cercano il dialogo nonostante le distanze, che si ricordano delle persone nonostante il tempo, e che sanno portare la propria presenza con grazia e dedizione nella vita altrui.
Auguri Patrick, per un anno pieno di gioia. Di cuore.
La tua amica Heidi.